[ Polonia-Francia-Regno Unito 2018 ]
Fino a pochissimi anni fa, il polacco Paweł Pawlikowski era conosciuto all’estero quasi esclusivamente per i suoi film documentari, e in particolar modo per Dostoevsky’s Travels (1991) – roadmovie tragicomico, in cui si narra il quotidiano dell’ultimo discendente del celebre romanziere russo, oggi impiegato a San Pietroburgo come conducente di tram e pulmini notturni. Una cosa almeno è certa: lungi dal disattendere le aspettative di quanti, dopo l’Oscar riportato nel 2015, ne avevano favorito l’invito a Cannes lo scorso maggio, il suo ultimo film conferma, oltre che un gusto eccezionale per la fotografia, un’abilità rara nel dosaggio delle parole, dei silenzi e della musica – che, più ancora delle altre volte, gioca qui un ruolo fondamentale nell’organizzazione della diegesi. Dopo essersi confrontato con registri di natura diversa, forse anche incoraggiato dalla riuscita di una riflessione già intrapresa con l’ormai celebre Ida, Pawlikowski sembra voler ritentare un tipo di narrazione più intimista, largamente ispirata al vissuto dei suoi genitori. Sembrerà banale, ma è così: Cold War non è altro che una storia di amore e di morte, che riesce a meravigliare, a discapito della sua incontestabile semplicità, per il senso della misura e della composizione, l’incisività dei dialoghi – alcuni dei quali davvero indimenticabili – e la profondità d’analisi psicologica dei personaggi, sospesi in una dimensione a cavallo tra memoria e immaginazione.
Ambientata tra la fine degli anni ’40 e la seconda metà degli anni ’70, la trama ripercorre in pochi capitoli e numerose ellissi la passione struggente che lega, nel tempo, Zuzanna (detta Zula) e Wictor. Alla ricerca di un modo per essere felici insieme, dopo un incontro casuale avvenuto in una scuola di musica dell’ex Unione Sovietica, i due trascorrono il resto della loro vita a cercarsi, perdersi e ritrovarsi sul palcoscenico di un’Europa a tutti gli effetti in bianco e nero, dove, quando si è nati dalla parte sbagliata di un muro, può succedere che non ci sia spazio per alcuna forma di redenzione individuale. In un certo senso è proprio questo che, sin dall’inizio, entrambi i protagonisti paiono cercare. Anche se la posta in gioco è alta; anche a costo di dover commettere un sacrificio talmente radicale da finire col significare il contrario di quello che sembra, cancellando in maniera definitiva il ricordo e la vergogna di ogni precedente compromesso.
Ce lo dicono le ultime sequenze, certo, ma è ciò che si prefigura già nelle primissime inquadrature che, da sole, tendono a suggerire il senso di una duplice traiettoria: quella degli amants maudits – col cui tòpos si gioca molto, ma senza mai tradirne davvero la complessità semantica – e quella del divenire storico, fatto di echi e ritorni, ma che quando lo si vive sul piano personale capita che non lasci intravedere molto altro che un’allarmante linea retta, chiusa da due punti fermi. Un numero significativo di recensioni ha paragonato Cold War all’americanissimo La La Land (2016) di Damien Chazelle, descrivendo il primo quale potente “controcampo” del secondo. A ben guardare, se questi due film condividono qualcosa – al di là di una colonna sonora pertinente, riuscita e con una capacità di trasporto eccezionale – questo qualcosa non è tanto la disillusione a cui danno forma, in modo effettivamente “complementare”, ma il senso di sconfitta con cui ci dicono che si deve imparare a coesistere, quando non lo si incarna, se necessario attraverso un gesto a forte valenza simbolica e carico della speranza di riuscire a fare, se non della coppia, quantomeno di una coppia, l’ultimo, fantomatico, luogo dell’utopia.
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